giovedì 29 aprile 2010

La legge di Jenkins applicata al vulcano islandese

Mark Henderson, giornalista del Times, in un post sulla vicenda del vulcano islandese e la percezione del rischio formula la Legge di Jenkins, che recita più o meno così: di fronte a un nuovo rischio alla salute pubblica o alla sicurezza c'è un numero di commentatori pronti a dire che le reazioni delle autorità sono esagerate e basate su paure e panico ingiustificato.

La legge prende il nome da un editorialista del Guardian, Simon Jenkins.

Nel suo post Henderson dimostra che le previsioni della legge si sono verificate anche nel caso dell'esplosione del vulcano islandese, con paragoni con quello che è successo per l'H1N1 e l'influenza aviaria.

La polemica su permettere/non permettere i voli aerei, danni economici, ruolo dei media, prove scientifiche, prevedibilità, modelli, aiuti di stato, ha tenuto banco su altri blog e giornali non solo in Inghilterra.

La discussione vede, come sempre in questi casi, la soluzione tecnocratica (i politici devono fare un passo indietro rispetto ai tecnici) e quella di natura più politica contrapporsi tra di loro. I media si dividono a loro volta nel sostenere l'una o l'altra parte.
Bisogna uscire da questi schemi e inventarsi di volta in volta soluzioni diverse a problemi diversi. Non si può mettere nello stesso calderone influenza h1N1, global warming e vulcani. E' uno schema di rapporto tra scienza e società molto limitato.

martedì 27 aprile 2010

Effetto CSI?

Via Mind Hacks, una questione su cui ci si interroga spesso: gli effetti sul pubblico di fiction famose come ER, Doctor House, ecc. Questa volta tocca a CSI.
Un articolo dell'Economist riporta degli studi secondo cui l'esposizione a CSI determina un'eccessiva fiducia nei metodi della scienza forense, la scienza applicata all'amministrazione della giustizia. Il sequenziamento del DNA è uno degli esempi più famosi.
I giurati che guardano CSI sono in grado di capire cos'è un test del DNA ma non sono in grado di capire quando è opportuno usarlo. La visione della fiction aumenta insomma le aspettative della rilevanza e del potere dell'evidenza scientifica e di conseguenza influenza i giudizi della corte.
la critica è che gli studi riportati dall'Economist si basano su aneddoti e che le prove di una relazione causa/effetto tra esposizione mediatica e comportamenti sia tutt'altro che chiara.
E' una questione un po' vecchia, ma si ripresenta costantmente: l'idea che, nel bene o nel male, soprattutto quando si parla di scienza ci sia una relazione lineare tra ciò che le persone vedono in tv, leggono sui giornali o ascolatano alla radio e le scelte, gli atteggiamenti, le opinioni in materia di scienza e tecnologia.
Non è così. Le cose sono molto più complicate.

lunedì 26 aprile 2010

Cresce il successo di ScienceBlogs

ScienceBlogs.com, il maggiore network di blog scientifici al mondo creato dal Seed Media Group, nei primi tre mesi del 2010 ha registrato un aumento del 41% delle visite rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Le visite totali nel 2009 sono aumentate del 55% rispetto all'anno precedente per un totale di 45 milioni di visitatori unici. Tutti i dati nel comunicato stampa del Seed Media Group.

domenica 25 aprile 2010

Da Risvegli all'elogio del manicomio: tutti i testi confermano la nostalgia di Sacks per gli ospedali psichiatrici

Alla fine dell'anno scorso, il 31 dicembre 2009, la Repubblica pubblicò un pezzo di Oliver Sacks dedicato ai manicomi negli Stati Uniti. L'articolo era un estratto di un testo che in forma integrale sarebbe apparso sulla Rivista dei Libri nel Gennaio 2010. A sua volta questo pezzo era la traduzione dall'inglese di una versione uscita sul The New York Book of Review qualche mese prima.

L'autore di Risvegli, da cui è stato tratto il film omonimo con Robin Williams e Robert De Niro, nel testo su La Repubblica si prodiga nel farci presente che in fondo i manicomi erano un luogo che dava ai pazienti "spazi e senso di comunità, un posto per lavorare e giocare, per apprendere un mestiere e imparare a vivere insieme". Un rifugio, insomma. Certo, c'erano state delle distorsioni e degli abusi, ma in fondo non erano poi così male.
Ha suscitato una certa delusione quest'articolo di Sacks, soprattutto in chi aveva apprezzato in lui la capacità di mettere in primo piano nei suoi libri (alcuni dei quali best-seller internazionali) le storie delle persone.
Il filosofo Pier Aldo Rovatti aveva messo bene in evidenza i punti deboli delle nostalgiche argomentazioni di Sacks in un pezzo pubblicato agli inizi di quest'anno sul sito del Forum Salute Mentale.
L'articolo sul la Repubblica era un po' strano. Non era molto chiaro perché Sacks avesse deciso di parlare dei bei tempi andati degli ospedali psichiatrici proprio l'ultimo dell'anno.
Andando a leggere la versione integrale su La Rivista dei Libri si capisce che il testo era connesso al libro fotografico Asylum del fotografo Christopher Payne, in cui c'è effettivamente una prefazione di Oliver Sacks messa ben in evidenza.



Si tratta di un volume bellissimo frutto di un lavoro durato sei anni che ci mostra cosa è rimasto dell'istituzione manicomiale americana. Le foto sono il risultato di un viaggio in settanta manicomi in trenta stati diversi. Le macerie della violenza istituzionale, registrata da Payne in immagini di interni, di luoghi e di oggetti, chissà perché stimolano i riflessi nostalgici di Sacks descritti nella prefazione.
Rimaneva il dubbio che il suo testo, in una cornice differente da quello dei giornali e delle riviste, potesse dirci qualcosa di diverso. Così non è. Ho avuto la fortuna di sfogliare il libro e confrontare le versioni.
La prefazione è quasi del tutto simile a quanto pubblicato sulla Rivista dei Libri. Ci sono delle parti in più, ma la sostanza non cambia: i manicomi secondo Sacks non erano così male.
Rimandiamo a Rovatti per capire tutto quello che c'è di sbagliato nelle argomentazioni di Sacks e nel fatto che la Repubblica gli abbia dato risalto.

L'arte della diagnosi in italiano


Avevo fatto riferimento in un post qualche tempo fa al libro Every Patient Tells a Story, che stavo leggendo in lingua originale. Ho scoperto che è stato tradotto da poco in italiano.

sabato 24 aprile 2010

La fiction per comunicare la scienza

Cosa ci può dire la fiction di interessante sulla scienza? E' la domanda a cui cerca di rispondere Jon Turney in un articolo sul sito di Lablit.
Inanzittutto le cose più importanti secondo Turney si imparano dai romanzi, molto meno dai film, che più facilmente riproducono stereotipi. E cosa ci dicono i buoni romanzi di science fiction? Non i fatti reali e le scoperte della ricerca, ma la scienza come attività e gli scienziati come persone.
Turney fornisce una serie di esempi dagli inizi degli anni '80 fino ad oggi per farci capire cosa intende.
Lo scrittore inglese considera tutti questi lavori come science fiction. Non è dello stesso parere il team di Lablit, guidato dalla biologa Jennifer Rohn. L'idea che regge l'iniziativa è quella di presentare, discutere e promuovere lavori di fiction (non solo letteraria, ma anche nei media e più in generale nella cultura popolare) in cui la scienza e gli scienziati sono rappresentati in modo realistico. Deve essere una fiction basata sul laboratorio o sulla cultura del laboratorio. L'obiettivo: andare oltre gli stereotipi.
Secondo Turney si tratta di una forzatura: è meglio continuare a parlare di science fiction, che non vuol dire solo fantascienza.

venerdì 23 aprile 2010

Il ministro Fazio sulla legge 180: nessun bisogno di riformarla

Un'intervista al ministro della salute Ferruccio Fazio pubblicata sul sito del Forum Salute mentale ribadisce che non c'è alcun bisogno di riformare la legge 180 sull'assistenza alle persone affette da disturbi mentali.
Dall'anno della sua promulgazione, il 1978, la 180 è stata al centro di numerosi tentativi di revisione. Anche attualmente sono depositate in Parlamento diverse proposte.
La posizione di Fazio chiarisce, superando preconcette posizioni ideologiche, quali sono gli obiettivi fondamentali e lo spirito a cui si è ispirato il provvedimento legato al nome di Franco Basaglia e cosa va fatto per rispondere pienamente ai bisogni delle persone, laddove per resistenza politico-culturale non sono stati forniti strumenti e risorse per far funzionare pienamente la 180.

giovedì 22 aprile 2010

De Biase sull'alba di un nuovo giornalismo

Per tutti coloro interessati al futuro del giornalismo, bisogna leggere il post di Luca De Biase in preparazione del suo talk per il Festival internazionale di giornalismo in questi giorni a Perugia. Estremamente utile anche per chi vuole riflettere sulla creazione di nicchie d'informazione nel nuovo ecosistema mediatico, come quello su temi di scienza e società.

Giornalismo scientifico e twitter

Sul blog del Science and Media Forum Veerman si chiede se Twitter può essere utile al giornalismo scientifico. Dubbi, paure e sorprese di chi ha scoperto da poco il mezzo. Niente di profondo ma se qualcuno vuole partecipare alla discussione può essere interessante.

martedì 20 aprile 2010

Le neuroscienze per spiegare la crisi del giornalismo, mah...

Via Giuseppe Granieri, segnalo un libro di Jack Fuller sulla crisi dei giornali. In What is Happening to News: The Information Explosion and the Crisis in Journalism, Fuller sostiene che i fatti delle neuroscienze hanno molto a che fare con i fatti che riguardano l'industria dell'informazione. Per argomentare la sua tesi ricorre ad analogie fra il cervello dell'uomo preistorico che viveva nella savana e il consumatore di news dei giorni nostri.
Una recensione sul Columbia Journalism Review critica il libro, che io non ho letto e non sono in grado di giudicare. A istinto, darei ragione a Todd Giltin, l'autore della recensione, quando scrive che oggi le neuroscienze sono un argomento sexy. Una buona strategia, aggiungo io, per vendere qualunque tipo di libro, compreso uno che parla della crisi del giornalismo.

venerdì 16 aprile 2010

Dai manicomi a Big Pharma: una rilettura critica della storia della psichiatria

Un articolo pubblicato sull'ultimo numero del The Lancet da uno dei più importanti storici della psichiatria in circolazione non fa sconti alla disciplina che si occupa dei disturbi mentali. Andrew Scull, studioso britannico che da circa quarant'anni indaga in chiave storica i rapporti tra malattia mentale, scienza psichiatrica e istituzioni, punta il dito contro l'attuale dominio scandaloso delle case farmaceutiche.

La sua attenzione è rivolta soprattutto alla situazione americana. Così Scull rilegge la nascita della neurobiologia:

The US National Institute of Mental Health proclaimed the 1990s “the decade of the brain”. A simplistic biological reductionism increasingly ruled the psychiatric roost. Patients and their families learned to attribute mental illness to faulty brain biochemistry, defects of dopamine, or a shortage of seratonin. It was biobabble as deeply misleading and unscientific as the psychobabble it replaced, but as marketing copy it was priceless. Meantime, the psychiatric profession was seduced and bought off with boatloads of research funding. Where once shrinks had been the most marginal of medical men, existing in a twilight zone on the margins of professional respectability, now they were the darlings of medical school deans, the millions upon millions of their grants and indirect cost recoveries helping to finance the expansion of the medical-industrial complex.

L'invadenza di Big Pharma domina la psichiatria attuale. Scull illustra i meccanismi con cui avviene l'intrusione delle case farmaceutiche nelle riviste specializzate, nelle conferenze, regolando le carriere universitarie e attraverso il reclutamento di ghostwriters che scrivono articoli "peer-reviwed" su prestigiose riviste internazionali.

giovedì 15 aprile 2010

Il paper scientifico del futuro deve rivolgersi a pubblici diversi

Come saranno i paper del futuro? Ecco l'interessante risposta presa da un post di Cameron Neylon

For me, the “paper” of the future has to encompass much more than just the narrative descriptions of processed results we have today. It needs to support a much more diverse range of publication types, data, software, processes, protocols, and ideas, as well provide a rich and interactive means of diving into the detail where the user in interested and skimming over the surface where they are not. It needs to provide re-visualisation and streaming under the users control and crucially it needs to provide the ability to repackage the content for new purposes; education, public engagement, even main stream media reporting.


L'idea è quella che il paper è un aggregazione di oggetti la cui migliore rappresentazione mentale sul web è quella di vederla come inseriti in qualcos'altro. questo qualcos'altro permetta di usare i dati per generare figure, modificare, manipolare. La pubblicazione può essere molte cose con diversi usi possibili.
L'altra cosa interessante è che gli oggetti che costituiscono il paper sul web possono essere messi in connessione tra di loro. Come sottofondo c'è il sematic web.
Ecco la rappresentazione grafica di come potrebbero interagire i vari oggetti che costituiscono il paper del futuro secondo Neylon:



L'immagine è sotto licenza creative commons.

Nuovo blog per Science and Media Forum a Madrid

Il prossimo 12 maggio si svolge a Madrid, per un paio di giorni, il Science and Media Forum.
La crisi del giornalismo scientifico e il suo futuro al centro della discussione:

"Media For Science Forum 2010 (MFSF2010) is a science journalism European congress that will deal with strategic issues about science communication and science journalism and its social dimension. Science journalism plays a vital role in informing and educating audiences about the scientific advances and their social applications, yet it faces unprecedented challenges and opportunities offered by the emerging digital technologies."

Il programma è disponibilie qui.

E' stato aperto anche un blog soprattutto per chi vuole partecipare ma non può essere a Madrid in quei giorni.

martedì 13 aprile 2010

Nasce giornale on demand anche in Italia

Via Luca De Biase segnalo che è nato Dig.it. Si tratta, come recita il testo di apertura nella home page, del primo sito di giornalismo on-demand in Italia. Gli utenti suggeriscono idee d'inchiesta, se l'idea piace ad altri utenti scatta la ricerca fondi per sostenere il lavoro investigativo, quando si raggiunge la cifra necessaria il giornalista inizia la sua ricerca, dopo si pubblica. L'intervento redazionale è nel vaglio delle proposte. Oggi è anche la giornata in cui per la prima volta è stato assegnato un Pulitzer a un sito web, si tratta di ProPublica. E' la dimostrazione che alcune forme di giornalismo in rete sono molto di più che semplici esperimenti.
Bisogna continuare a sperimentare per capire cosa sarà il giornalismo dei prossimi anni. L'introduzione a The State of the News Media 2010 del Pew Project for Excellence in Journalism si chiudeva con le seguenti domande:

"Is there some collaborative model that would allow citizens and journalists to have the best of both worlds and add more capacity here? What ethical values about news will settle in at these sites? Will legacy and new media continue to cooperate more, sharing stories and pooling resources, and if they do, how can one operation vouch for the fairness and accuracy of something they did not produce?"

Sono domande molto appropriate per un sito che nasce, in Italia soprattutto, come Dig.it

Condivido pienamente la risposta di Larry Jinks:

“I think the answer may come from places staffed by young people who understand the new technology and its potential and who have a passion for journalism,”

Giovani, rete e passione per l'informazione.

lunedì 12 aprile 2010

Climate auditors: la scienza in crisi e nuovo giornalismo scientifico

C'è un post di Judith Curry su Physics Today del febbraio scorso che merita qualche considerazione in più.
Curry parla della controversia legata allo svelamento di alcune email private degli scienziati della Climate Research Unit dell'Universitaà della West Anglia da parte di hacker.
Uno dei punti più interessanti riguarda il ruolo dei cosiddetti climate auditors che, nella definizione della studiosa americana, sono persone alfabetizzate dal punto di vista tecnico, la maggior parte vive al di fuori dell'accademia, molti hanno sviluppato delle expertise scientifiche riguardo ad aspetti particolari della scienza sul clima, non producono conoscenza originale, ma la controllano, agiscono come "cani da guardia". Perché suscitano fiducia? Perché sono indipendenti da influenze esterne e in particolare da quelle delle compagnie petrolifere e perché a loro interessa capire il rischio e l'incertezza associati al cambiamento climatico senza che qualcuno dica loro quale tipo di policy dovrebbero sostenere. Dove discutono, dove si formano questi gruppi? Sulla rete, soprattutto attraverso i blog.

E' una lezione molto interessante per gli scienziati e i giornalisti che continunano a viversi e a rappresentarsi negli schemi classici di rapporto tra scienza e società.

Primo. La scienza ha una crisi di credibilità. Per suscitare credibilità non basta l'expertise, ci vuole anche la fiducia. La fiducia si conquista accettando di comunicare veramente, ascoltando, partecipando. Per il momento gli scienziati ci riescono molto poco. Fanno fatica a trovare dei meccanismi comunicativi che garantiscano loro l'immagine di indipendenza, autonomia da cui scaturisce la fiducia. La peer-review non basta più. Non basta anche perché la rete sta scardinando questi meccanismi. Se i ricecatori più esposti in questo momento alla discussione pubblica, come gli scienziati del clima, non lo capiscono non so se avrà ancora senso parlare a lungo di uno specifico sistema di produzione della conoscenza che porta il nome di scienza.

Secondo. I climate auditors producono informazione che per il pubblico è attendibile. Hanno costruito una narrazione degli eventi basata su fatti a cui il pubblico ha attribuito credibilità. Questo basta per dire che sono un esempio di giornalismo scientifico anche se i giornalisti tradizionali direbbero che non è vero.

domenica 11 aprile 2010

Psichiatria dimezzata e storie di vita

Un articolo di Eugenio Borgna a pg. 30 del Domenicale del Sole 24 Ore di oggi replica a un pezzo di Gilberto Corbellini di cui avevo parlato anche io in un post diun paio di settimane fa circa.
Borgna commenta il lavoro dell'American Psychiatric Association che, come è noto, è impegnata nell'elaborazione della quinta edizione del Dsm, o Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, il manuale diagnostico di psichiatria più usato al mondo. Alla logica "oggettivante" e "universalistica" del Dsm, Borgna contrappone la dimensione del contesto e dell'ascolto. Una psichiatria che non tenga conto della dimensione soggettiva, interiore, specifica, è una psichiatria dimezzata, a cui manca la dimensione emozionale e relazionale.
"Come posso giungere alla diagnosi, in psichiatria, se non riesco a fare sgorgare dalla vita interiore dei pazienti le ragioni ferite del loro cuore? Come faccio a riconoscere fino in fondo l'angoscia, e la malinconia, dei pazienti, se non ho mai conosciuto queste esperienze umane, prima ancora che non psicopatologiche, nella mia anima o nella mia immaginazione?", si chiede Borgna.
Nel suo discorso tornano concetti cari a Basaglia e alla psichiatria italiana che alle sue idee oggi si ispira: l'ascolto, il malato prima della malattia, la relazione anteposta alla conoscenza, la cura del soggetto invece che il sapere sull'oggetto. Al centro di questo approccio non c'è un gesto umanitario o un rinnovamento dell'assistenza.
C'è una prima questione, ricordata da Borgna, che è la diagnosi. Sto leggendo un libro, Every Patient Tells a Story il cui scopo è quello di chiarire il processo attraverso il quale i medici dichiarano se e di cosa siamo malati. E' in linea con la risposta di Borgna e Basaglia: una diagnosi corretta può essere formulata solo quando il medico lascia spazio alla storia di vita del paziente. Le storie sono la chiave attraverso cui la conoscenza medica "generale" può trovare corrispondenza nella condizione specifica, di un paziente e di una persona "particolare".
La seconda questione che la psichiatria biologistica tende a dimenticare e che vale secondo me per tutto il dibattito attorno alla cittadinanza scientifica è la seguente: una certa dose di medicalizzazione della psichiatria può essere accettata solo a patto che la persona resti un sogetto titolare di diritti e non venga automaticamente ridotto a un paziente malato. Non può essere accettata nessuna psichiatria, e più in generale nessuna spiegazione scientifica che riduca in malattia, in mancanza, in deficit, bisogni di altra natura che vanno affrontati altrimenti, sul piano sociale, economico, relazionale, di comunità.
Ascoltare le storie di vita delle persone serve a comprendere dove arriva la malattia e dove inizia qualcos'altro che con la malattia nulla a che fare. Così come ci serve a capire che l'opposizione a certe innovazioni tecnoscientifiche non è dettata da ignoranza, da ostilità preconcetta nei confronti della scienza, ma dal fatto che si hanno altri bisogni, spesso incompresi, inascoltati, alla ricerca di una decifrazione e di una via di espressione. Dobbiamo ascoltare le storie per capire quali nuovi o vecchi diritti vengono invocati nelle zone sempre più frequenti d'interazione fra scienza e società. La psichiatria è un esempio paradigmatico di tutto quello che di buono e di cattivo si può fare.

sabato 10 aprile 2010

La malattia come risorsa



Un numero di Aut-Aut della fine del 2008 dedicato alla medicalizzazione della vita ripropone un'indicazione paradossale per aggredire criticamente il cosiddetto dispositivo biopolitico, un dispositivo che, in nome di un paradigma medico sempre più raffinato e scientifico, ci vuole tutti come individui da curare, individui malati prima ancora di saperlo, in attesa della misura di un qualche deficit.
Riprendendo alcuni testi di Franca Ongaro Basaglia e di Georges Canguilhem, la malattia non è solo descrivibile "come fuga, come deresponsabilizzazione, come resa incondizionata", ma anche come "identità, come rapporto, come affermazione di sé in un mondo in cui non c'è spazio né per l'identità né per il rapporto, né per una propria realizzazione che non rientri nei parametri del 'successo' e della 'sconfitta' ". [tratto da pg.9 dell'intervento di Pier Aldo Rovatti].
Il paradosso sta nel vedere la malattia come "chance di vita" e di affermazione di una soggettività espropriata dalla medicalizzazione della vita.
Lo spiega bene Mario Colucci nel suo intervento a pg. 118, riportando questa volta un'intuizione di Franco Basaglia il quale "aveva compreso che paradossalmente la malattia poteva essere un 'rimedio', qualcosa che poteva curare la comunità, liberarla dalla sua deriva civile, dalla sua miseria culturale, dalle ossessioni di normalità e di onnipotenza che l'affliggono. Quando l'inclusione sociale non rappresenta un gesto umanitario, ma l'occasione che permette di apprendere qualcosa riguardo ai propri 'resti' - siano essi il dolore, la marginalità, la vecchiaia, la solitudine -, la malattia diventa una risorsa per la comunità, perché migliora la qualità dei legami sociali di tutti e riabilita ciascuno alla proprie competenze etiche."

giovedì 8 aprile 2010

La fine dello scientismo



Nel suo nuovo libro Bucchi si pone il problema di come uscire dall'impasse delle attuali sfide tecnoscientifiche. La discussione pubblica su ogm, nucleare, nanotecnologie, neuroscienze, ecc., è ingabbiata in uno schema che egli complessivamente definisce scientismo.
Con questo termine Bucchi intende un "discorso sui rapporti tra scienza e società" che poco ha che fare con le pratiche e i processi reali della scienza e che accomuna scientisti e antiscientisti intesi nella loro accezione tradizionale. Lo scientismo così definito è una forma di universalismo anacronistico che non ha il vero obiettivo di "risolvere" i conflitti, ma quello di essere funzionale alla sopravvivenza delle parti antagoniste.
Bucchi descrive, con una serie di esempi raccolti soprattutto dalle scienze della vita, le ragioni per le quali lo scientismo è diventato ormai impraticabile. L'idea generale sottesa alle sue argomentazioni è la messa in discussione della visione secondo cui Scienza e Società sono due entità monolitiche in perenne e necessario conflitto. Questa impostazione alimenta l'illusione che i dilemmi attuali sull'impatto sociale dell'innovazione tecnoscientifica si possano tradurre nella "tradizionali categorie del dibattito pubblico e della decisione politica" (sì/no, giusto/sbagliato).
Nella prospettiva scientista non c'è nessun conflitto vero.
Conclude Bucchi: "Credendo (o fingendo) di scontrarsi, scienza e società in realtà assecondano le rispettive inclinazioni, si usano reciprocamente come scudo (e come scusa) nel gioco scientista delle parti, scambiandosi continuamente i ruoli fino a sfumare, in certi casi, una nell'altra".
Il libro di Bucchi è ricco di spunti interessanti. Una piccolo dato sperimentale a supporto delle sue argomentazioni è la reazione di Odifreddi in una recensione sulla Repubblica. Il matematico-divulgatore si è affrettato a scrivere che non si può cancellare la differenza tra scientisti e antiscientisti. Nella chiave di lettura offerta dal sociologo vicentino, è una rispota che può essere inquadrata proprio nello schema secondo cui lo scientismo ha bisogno di un nemico per giustificare la sua esistenza.
Bucchi dà inoltre un ruolo centrale alla comunicazione pubblica, scarsamente problematizzato nel contesto delle relazioni tra ricerca scientifica e diversi attori sociali. Essa rappresenta un chiaro esempio del perché lo scientismo deve essere archiviato. Il superamento della prospettiva tradizionale, divulgativa, legata alla coincidenza della comunicazione della scienza con il trasferimento della conoscenza senza alterazioni, permetterebbe di palesare gli attuali luoghi di incontro e di intersezione tra scienza e società, sempre più numerosi e sempre meno riconducibili allo schema scientista.
Quest'ultimo lavoro di Bucchi è in linea di continuità con un programma di ricerca e di pubblicazioni condotto da diversi anni dal sociologo dell'Università di Trento che lo hanno fatto diventare uno dei maggiori punti di riferimento a livello internazionale soprattutto nell'ambito degli studi sulla comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia.
Il libro "Scientisti e antiscientisti", rispetto ad altri suoi lavori, ha secondo me più il sapore di un pamphlet finalizzato a suscitare una discussione, a smuovere le acqua, più che di uno studio sistematico del tema preso in esame.
Bucchi fa una scelta di campo e una proposta-manifesto a cui, auspicabilmente, far seguire un programma di ricerca adeguato nel tentativo di modificare le coordinate delle discussioni e le attuali cornici d'interpretazione dei rapporti tra scienza e società.

Spiegare la ricerca: un manuale per scienziati ma non solo



Dal sito di Scientific American, un podcast del comunicatore scientifico Dannis Meredith spiega perché è importante per i ricercatori saper comunicare con pubblici diversi. L'intervento è legato al libro Explaining Research scritto da Meredith e pubblicato a gennaio da Oxford University Press.
Parti interessanti rispetto ad altri manuali in circolazione, almeno secondo quanto recita la quarta:

-l'attenzione agli strumenti del web;
-le interviste a 45 esperti di comunicazione della scienza.

Può essere interessante per tutti coloro interessati a far circolare la conoscenza in modo efficace in epoca contemporanea.

mercoledì 7 aprile 2010

On air

Alcune recenti interviste e interventi radio su scienza e media ai tempi della globalizzazione.
Per Moebius - Sole 24 Ore, per Radio Città Fujiko - Caccia al Fotone e per Radio Emilia Romagna.

martedì 6 aprile 2010

Percezione pubblica delle malattie mentali in UK: nuovo report

Il Dipartimento della Salute della Gran Bretagna ha appena pubblicato un nuovo report sugli atteggiamenti dei cittadini britannici nei confronti delle malattie mentali.
Fra i risultati più importanti:

-People are broadly sympathetic towards people with a mental illness;
-Some attitudes towards people with mental illness are worse compared to when the Department of Health first commissioned the poll in 1994 although a number have improved. Several attitudes that had worsened over the period up until 1997 have since improved.
-Attitudes to a number of statements have changed between 2009 and 2010.
-Opinions on some statements changed towards greater tolerance, for example:
‘Locating mental health facilities in a residential area downgrades the neighbourhood’ - agreement with this statement decreased from 21 percent to 18 percent.
-Some opinions moved more in favour of integrating people with mental illness into the community, for example:
‘Residents have nothing to fear from people coming into their neighbourhood to obtain mental health services’ – agreement with this statement increased from 62 percent to 66 percent.
-On one item though, opinions moved less in favour of integration:
‘Mental hospitals are an outdated means of treating people with mental illness’ – agreement with this statement fell from 37 percent in 2009 to 33 percent in 2010


Un grafico mostra come negli anni sono cambiate le risposte su alcune delle questioni più importanti:




Su un post di Neuroskeptic si trovano alcune critiche alle indagini di questo tipo dal punto di vista metodologico.

Il dato certo è che in Gran Bretagna continuano a esistere gli ospedali psichiatrici. I cittadini di Sua Maestà, stando almeno ai risultati del report, sono propoense a credere in maggioranza che non si tratti di un sistema obsoleto di cura.
Il punto è che il manicomio non è un luogo di cura. Non lo è mai stato. Credo che la domanda nel questionario inglese sia malposta perché si presume una finalità terapeutica dell'ospedale psichiatrico che non ha mai avuto riscontro scientifico. L'ampia percentuale di persone che in Gran Bretagna vuole mantenere quest'istituzione riflette il fatto che la malattia mentale è concepita soprattutto come qualcosa da cui la società deve proteggersi.
La prima cosa da fare è abbattere i manicomi. In Italia, come è noto, è stato fatto grazie al lavoro pionieristico di Franco Basaglia ormai più di trent'anni fa.

Peer-review collettiva dal basso per recuperare fiducia nella scienza

A partire da un recente post di Framing Science si può recuperare una discussione importante sul movimento "science audit". Si tratta di una rete di cittadini che richiedono un maggior livello di trasparenza nei dati e nella ricerca scientifica, con un'attenzione soprattutto nei confronti del cambiamento climatico. Il movimento combina le competenze professionali dei suoi componenti con le tecnologie on-line. Qualche tempo fa ha scritto un saggio importante sul tema Judith Carry su Physics Today, da cui è partita la discussione sulla blogosfera. Da leggere, su questioni di policy, media e cambiamento climatico, anche un articolo del Der Spiegel, davvero un bell'esempio di giornalismo scientifico ai tempi del web 2.0.
La discussione, nel suo complesso, ruota attorno al processo di peer-review, il quale, da solo, non è più sufficiente a garantire la crescente richiesta di trasparenza pubblica su innovazioni tecno-scientifiche di rilevante impatto sociale.
I cittadini del movimento "science audit" rivendicano di essere inclusi nel processo di revisione della ricerca, a un secondo-livello, dopo quello tecnico, su temi come le nanotecnologie, la ricerca biomedica, la sicurezza dei vaccini. Richiedono, in altre parole, un diritto vero di cittadinanza scientifica che riduca o annulli l' asimmetria informativa .
Due punti importanti e interessanti per chi si occupa di processi della comunicazione della scienza:
1. I movimenti come "science audit" attaccano la peer-review. Non è una cosa da poco. Come ho scritto altre volte in questo blog, il motivo per cui la scienza ha creato un consenso sociale attorno alle sue affermazioni è profondamente legato al meccanismo di peer-review. Una procedura che i ricercatori si sono dati per decidere chi sta dentro e chi sta fuori, chi può legittimamente rivendicare il diritto a essere chiamato scienziato e chi invece fa affermazioni pseudo-scientifiche;
2. Per il momento la rete non è la nuova agorà che soddisfa il bisogno di cittadinanza scientifica non esprimibile sui media tradizionali. Eppure, attraverso la rete, come dimostra il movimento "science audit", quel bisogno si manifesta chiaramente e inesorabilmente. Un'analisi storica appropondita rivelerebbe che non si tratta di una novità dei nostri tempi. Gli attuali rapporti tra scienza e società e il web modificano però non poco le cose, con scenari attualmente imprevedibili.

giovedì 1 aprile 2010

Jcom su Nova 24

A pg 22 del numero di Nova Sole 24 Ore oggi in edicola ci sono due articoli che fanno riferimento al numero speciale di Jcom - Journal of Science Communication (la rivista di ricerca in comunicazione della scienza di cui sono direttore) dedicato alla scienza peer-to-peer.

Uno studio sulla copertura di argomenti di salute da parte della carta stampata italiana

Luca Iaboli, autore di un paper pubblicato su PlosOne pochi giorni fa, mi segnala il lavoro fatto con altri colleghi afferenti a ospedali e università di Ferrara e Reggio Emilia. La ricerca analizza l'informazione sulla salute, con prospettiva scientifica, apparsa su quotidiani e settimanali italiani in una settimana di osservazione.
Gli autori hanno una prospettiva divulgativa. Sostanzialmente interessa loro capire quanto siano accurati e bilanciati i contenuti degli articoli presi in esame rispetto alla letteratura scientifica. Gli autori si chiedono anche quanto e se vengono dichiarati i conflitti d'interesse.
Non sorpende che, con una prospettiva normativa, i risultati siano simili ad altri studi di questo tipo: la qualità dell'informazione fornita su argomenti di salute è bassa e i conflitti d'interesse non emergono.
Non voglio dilungarmi sulle critiche classiche e sui limiti di questo tipo di impostazione, in parte dichiarati dagli stessi autori in conclusione al loro lavoro.
Mi interessa sottolineare altri due aspetti. La prima. Gli autori si chiedono: questo tipo di informazione aiuta o danneggia la promozione della salute nel suo complesso? La domanda ripropone l'annosa questione degli effetti dei media. Soprattutto sulle questioni di salute vale la pena sottolineare che le forme di consumo sono molto più articolate di quanto possano suggerire le analisi del contenuto. In ogni caso, ci sono più di una trentina di teorie sugli effetti sociali dei media attualmente disponibili e non se ne viene a capo. Di sicuro sono tutti d'accordo sul fatto che il rapporto tra informazione/comunicazione mass-mediatica e comportamenti è tutt'altro che lineare.
Seconda questione: il conflitto d'interessi non dichiarato. Questo problema va inquadrato nella questione più generale del giornalismo scientifico investigativo. Se diminuiscono le risorse e le protezioni per un giornalismo indipendente, soprattutto per un'informazione di nicchia come quella sulla scienza e sulla salute, non ci possiamo stupire che i conflitti d'interessi o non si vedono o, ancora più grave, non si possono denunciare. Di certo la spiegazione non è l'approssimazione del singolo giornalista, ma una crisi strutturale del giornalismo d'inchiesta dovuta a motivi di cui si disucte molto, anche in questo blog.