Sul New York Times di qualche giorno fa si parla delle opportunità che i media digitali offrono agli accademici per superare i limiti della peer-review.
La discussione fa riferimento all'ambito umanistico ma è esportabile e confrontabile con quanto avviene nelle scienze sociali e in quelle naturali.
L'idea centrale è l'open-review. Nell'articolo vengono presentate una serie di iniziative editoriali costruite attraverso un allargamento del pool di revisori che commentano pubblicamente papers e capitoli di libri non pubblicati.
Il modello di riferimento è wikipedia applicato alla letteratura accademica. Le varianti sono molte, ma gli aspetti essenziali sono questi.
Nell'articolo del NYT si sostiene che stiamo assistendo a una delle più radicali trasformazioni nel modo in cui leggiamo, scriviamo e facciamo circolare la conoscenza fin dall'invenzione dei caratteri mobili.
Si dibatte sulla qualità e la spendibilità accademica della open-review. Mattew Nisbet sottolinea che l'open-review deve andare di pari passo con l'open-access.
Sono punti importanti ma che mostrano solo la punta dell'iceberg della difficoltà a superare il modello della peer-review. Le ragioni più profonde sono legate a mio modo di vedere ad almeno due considerazioni:
Prima questione: la peer-review è la pratica comunicativa attraverso la quale la conoscenza scientifica in particolare, e quella accademica in generale, si sono guadagnate un forte consenso sociale;
Seconda questione (legata alla prima): allargare il numero di persone che valutano un lavoro significa legittimare altri esperti (non accademici) a stabilire la qualità della conoscenza prodotta. E' un processo equivalente ad includere forme di conoscenza non ritenute attualmente "scientifiche". E' una procedura che contribuirebbe a spostare la linea di demarcazione fra conoscenza accreditata accademicamente e altre conoscenze, fra scienza e non-scienza. Questo confine è storicamente determinato e negoziato mediante processi di comunicazione.
Per questi motivi non credo basterà avere soluzioni tecnicamente disponibili per modificare un sistema che ha la funzione di selezionare la classe accademica e da cui derivano identità e riconoscimento sociale.
Il punto che mi preme sottolineare è che la rivoluzione digitale mostra in modo dirompente gli stretti rapporti tra produzione della conoscenza e comunicazione, anche in ambito scientifico.
E' un discorso che ci aiuta a capire meglio perché può essere molto utile, come suggerisce lo storico James Secord, leggere l'impresa scientifica anche come una particolare forma di azione comunicativa.
Su Jcom, la rivista di cui sono direttore, abbiamo dedicato un numero speciale alla scienza peer-to-peer lo scorso marzo. E' un tema legato alla discussione innescata dal NYT e alle procedure di inclusione, di esclusione, di definizione delle categorie di esperto legate alle pratiche comunicative.
domenica 29 agosto 2010
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