Un articolo di Eugenio Borgna a pg. 30 del Domenicale del Sole 24 Ore di oggi replica a un pezzo di Gilberto Corbellini di cui avevo parlato anche io in un post diun paio di settimane fa circa.
Borgna commenta il lavoro dell'American Psychiatric Association che, come è noto, è impegnata nell'elaborazione della quinta edizione del Dsm, o Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, il manuale diagnostico di psichiatria più usato al mondo. Alla logica "oggettivante" e "universalistica" del Dsm, Borgna contrappone la dimensione del contesto e dell'ascolto. Una psichiatria che non tenga conto della dimensione soggettiva, interiore, specifica, è una psichiatria dimezzata, a cui manca la dimensione emozionale e relazionale.
"Come posso giungere alla diagnosi, in psichiatria, se non riesco a fare sgorgare dalla vita interiore dei pazienti le ragioni ferite del loro cuore? Come faccio a riconoscere fino in fondo l'angoscia, e la malinconia, dei pazienti, se non ho mai conosciuto queste esperienze umane, prima ancora che non psicopatologiche, nella mia anima o nella mia immaginazione?", si chiede Borgna.
Nel suo discorso tornano concetti cari a Basaglia e alla psichiatria italiana che alle sue idee oggi si ispira: l'ascolto, il malato prima della malattia, la relazione anteposta alla conoscenza, la cura del soggetto invece che il sapere sull'oggetto. Al centro di questo approccio non c'è un gesto umanitario o un rinnovamento dell'assistenza.
C'è una prima questione, ricordata da Borgna, che è la diagnosi. Sto leggendo un libro, Every Patient Tells a Story il cui scopo è quello di chiarire il processo attraverso il quale i medici dichiarano se e di cosa siamo malati. E' in linea con la risposta di Borgna e Basaglia: una diagnosi corretta può essere formulata solo quando il medico lascia spazio alla storia di vita del paziente. Le storie sono la chiave attraverso cui la conoscenza medica "generale" può trovare corrispondenza nella condizione specifica, di un paziente e di una persona "particolare".
La seconda questione che la psichiatria biologistica tende a dimenticare e che vale secondo me per tutto il dibattito attorno alla cittadinanza scientifica è la seguente: una certa dose di medicalizzazione della psichiatria può essere accettata solo a patto che la persona resti un sogetto titolare di diritti e non venga automaticamente ridotto a un paziente malato. Non può essere accettata nessuna psichiatria, e più in generale nessuna spiegazione scientifica che riduca in malattia, in mancanza, in deficit, bisogni di altra natura che vanno affrontati altrimenti, sul piano sociale, economico, relazionale, di comunità.
Ascoltare le storie di vita delle persone serve a comprendere dove arriva la malattia e dove inizia qualcos'altro che con la malattia nulla a che fare. Così come ci serve a capire che l'opposizione a certe innovazioni tecnoscientifiche non è dettata da ignoranza, da ostilità preconcetta nei confronti della scienza, ma dal fatto che si hanno altri bisogni, spesso incompresi, inascoltati, alla ricerca di una decifrazione e di una via di espressione. Dobbiamo ascoltare le storie per capire quali nuovi o vecchi diritti vengono invocati nelle zone sempre più frequenti d'interazione fra scienza e società. La psichiatria è un esempio paradigmatico di tutto quello che di buono e di cattivo si può fare.
domenica 11 aprile 2010
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